(Growin' up, Francesca Anita Modotti)
Cassandra,
a sei anni, aveva già il seno pronunciato che gonfiava la maglietta lì dove lei
presto avrebbe imparato a poggiare la vergogna. Mi scusi, me la regge
qui per un poco? Il tempo di affacciarmi dal balcone e far scivolare giù sul
selciato questi occhiali spessi come il ferro sulla schiena del soldato, e
tornerò a riprendermela. Sempre che da cieca ritrovi la strada. Di lei
in paese non si diceva un gran bene già allora, ma presto le cose sarebbero
peggiorate. Perché il padre di Cassandra aveva un compito preciso nella comunità,
e non era esattamente il compito che uno si sarebbe scelto. O che si sarebbe
aspettato. Il padre di Cassandra puliva il culo ai topi quando quelli, per
svariata dieta errata, s’ammalavano di diarree e pulci infette. E se ne faceva
fregio anche, del suo ruolo istituzionale, appendendo alla porta i fazzoletti
di carta e aspettando che fosse il vento a portarli da dove erano arrivati,
secondo lui… E cioè dal niente. Come dal niente erano piovuti quel lavoro e
quella figlia, e tutti gli ostacoli a un ritorno abbondante fatto di pacchi di
pasta e aceto, di spesa che sfonda la busta di plastica e del nome di lei,
Cassandra, che altro non gli aveva lasciato come ruolo se non quello. Così un
giorno il padre di Cassandra, mentre rientrava a casa dopo il lavoro, vide la
vergogna sulla faccia della figlia. Stava, lei, tesa fuori dal balcone, con la
testa in avanti e attaccata alle braccia. La ringhiera pareva essere li li per
crollare sotto il macigno di tanta afasia, così l’uomo spalancò la bocca per
urlare e alleggerire la scena. Fu in quel momento che vide gli occhiali
scivolare. Lo sguardo di sua figlia splendette nel chiaro del meriggio e fu
come ritrovarsi coi parenti in cima al bosco, con feste da consumare e parole
da scordare e conti da abbonare nell’anno in cui, per differenti sentieri,
s’arrampicarono in faggeta e quando giunsero alla radura ci trovarono la loro
mamma, che questo era diventata, stesa nell’erba con gli occhi di cera.
Cassandra pensò che a partorirla fosse stato un cipresso. E suo padre pensò che
la moglie fosse diventata una allodola. Ma poi avevano capito che le radure
sono abitate da troppi spettri, e che se un soffio di sale già basta a cambiare
il sapore di un pasto, allora davvero mangiare la segale o farsi un maiale, non
potevano essere casi così differenti tra loro. Poi gli occhiali precipitarono,
come gli eventi, insieme alla vergogna, ai piedi del padre con la bocca
spalancata. E Cassandra rise, indicò col dito l’orizzonte, e sull’orizzonte
scorse la madre. E tagliò il filo a cui l’uomo appendeva i fazzoletti sporchi e
rise forte ancora, come a teatro, quando non si capisce una battuta ma il
biglietto vale bene la rappresentazione di avercela fatta, di essere come
tutti, divertito e arguto. Cassandra indicò l’orizzonte e il padre capì che era
tempo di andare. Che i rotoli di carne tenuti a stecca per le volte in cui
avremmo potuto averne fame adesso gli sarebbero serviti tutti. Abbracciò la
scena con le palpebre, come dentro a una cornice. Si grattò il mento, sbadigliò
perplesso e si convinse.
Gli spettri sono nostri amici, ma noi ne abbiamo paura.
RispondiEliminaperche' li fraintendiamo?
RispondiElimina...almeno il padre....
RispondiElimina@luisaluz gia', almeno lui...
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