lunedì 14 novembre 2011

Cani


(Fotografia di Francesca Anita Modotti)



Ah beh sì, è così, non c’e’ dubbio alcuno ne’ alcuna amara sorte. Ci sono porte, ecco. Alle volte ci sono anche portoni. Generalmente arcigni e chiusi. Anche le oche ci sono, nei cortili, oltre i recinti. E ci sono mura bianche e mura scure, come ci sono anche ciottoli che lastricano le viuzze nei paesi, strette e capaci anche a volte a ripararti un po’ dal vento freddo della montagna. E poi c’è qualche castagna. Non scherzo, anche qualche castagna c’è. Costa due euro al pacchetto, questa merce. E mi ricordo quell’altra festa del vino, quella in cui ero adulto poco più di un bambino, e già allora in mezzo a questo delirio  me ne andavo in giro coi miei compagni sotto il cranio, e chiuso dagli occhi facevo capolino, quando uno di quelli s’affacciava a spiare il mondo a cui era ed è alieno. Già da quel tempo tutte le mie psicosi avevano le carte giuste per tenere la mano. E non c’era da fare nulla se non pregare. Chiudersi dentro un riccio ancora più cattivo e pregare. Adesso voi non lo sapete, ma la preghiera è un sintomo e definisce la malattia. E io invece ne so, perché sono malato. E no, non credo mica a quelle teorie per le quali solo il medico può vedere dentro al secchio e scindere il risotto dalla merda. Anche il malato può, proprio perché genera da sé la sua malattia. Così qualcuno all’epoca chiamò la polizia. Che arrivò tutta defilata decisa a sfondare il cordone. Silvia mi portò via. A due passi dal bancone cominciammo a baciarci furiosamente. Ecco, le cercavo in bocca il cuore mio, ben sapendo che non l’aveva mica mangiato lei. E mi venne, all’epoca in cui ero adulto poco più di un bambino, anche di chiedere dove stesse di casa sua madre. Oggi piuttosto vorrei piovere sui gatti di tutto questo paese pazzo che formalizza una dittatura allegramente, con gioia. Gruppi inneggiano alle elezioni, forse scrivono la storia. Forse è strategia, tattica, opportunismo. Forse sono io davanti a questo momento intriso di specchi sfasciati che tagliano, pungono, rispettano il nemico almeno quanto rispettano la ritirata. E’ tutto così, tutto in festa, tutto in cascata. Filari di piscio scolano lungo i gradini. In slalom taglio i piedi di chi mi capita a tiro. Qualche scusa la dico anche. Ma la mia specialità è entrare e uscire dalle serate come se non avessi un corpo vero e proprio. Come se la materia potesse generarsi da sé a mio comando o per mia alchimia. Scriverò un libro e tramuterò questa potenza in oro. Così svaluterò il metallo giallo e farò un favore a qualche extraterrestre col pianeta malato. Ecco, devo smetterla di parlare con gente cresciuta a cazzi e Urania. Insomma, adesso come adesso sono anche un po’ più stanco di cinque anni fa. E non guardo in faccia nessuno, era questo che volevo riportare della cronaca. A quella festa in cui ero adulto e bambino, finivo sempre a cercare il cuore dentro le bocche di chi non l’aveva neanche assaggiato. Adesso invece navigo addirittura staccando la spina alla vista. Da quel che ne so, potrebbe essere segno di due cose: o ho imparato che la ferocia serve come il salame a un vegano, oppure questa corrente che mi prende e pasticcia ha un profumo familiare, ogni tanto.

3 commenti: