mercoledì 18 gennaio 2012

(Immagine alpexex/eri haka)




Grazie alla Nasa (a qualcosa serve anche quella), al web, a chi scrive sui muri, a LB e a Eri Haka per le immagini di questo blog. 
Un grazie e un pensiero particolare vanno a Francesca Anita Modotti, per l'arte, l'intelligenza, la pazienza, la voglia di dare e la disponibilità a incontrare. Se potessi più di così farti sentire il mio affetto sincero, forse non vivremmo in questo cosmo tanto buio. E magari correremmo in quei mondi che si intuiscono cadendo dentro alla tua fantasia. 
Grazie a tutti del vostro tempo, della vostra voglia di giocare con me a questo che, lo ricordo ancora, è solo un videogame.

Kap, segretario dimissionario del blog Leave Me Alone

PS
Grazie a LMA e in particolare al post In su, perché certe strade portano nei posti più belli.


venerdì 18 novembre 2011

Novembre era - Frammenti di altri racconti


(Lampe, di Eri Haka)




[...] E’ finita che me ne sono andato in giro, in cerca di ispirazione. Perché in fondo per me la vita questa è: un foglio, le persone, le situazioni, i luoghi sempre differenti, le opinioni e più ancora ciò che opinabile non è. La miseria, la felicità, la libertà. L'incendio che i passeri urlanti appiccano agli alberi, in armonia col turbine gigantesco che schianta i margini del foglio. Di ogni orgoglio. Di ogni sentimento liso che ho deciso da oggi metterò all'asta imprimendolo su di un libro. Al migliore offerente. Uno spartito. solo questo, uno spartito. Perché ben altro qui c'è. Nel cosmo nero e splendente, dove arrivano le mani non arriva la mente, non arrivano i ricordi, non arrivano i giorni. Non bastano mai. Ne' bastano i nodi che con le braccia mi stringi al collo, o la bocca tra le gambe tue sempre aperta, le ore di quiete e di danza, senza una stanza, senza un tetto, senza una prigione, e… dove mi porti a ballare amore? Ti porterò nel peso che la sera appende sul muso di un cucciolo rosso, deformandogli la bocca. Una lingua di nuvola cade e s'allarga. Le immagini sfioriscono nei dettagli e mutano ragione. La mia ispirazione mai. La mia ispirazione sa esattamente cosa vuole. [...]

Insufficienze (piu' o meno gravi)


(Immagine tratta dal video "Eden.com" di Francesca Anita Modotti)

"[...] e' una pessima idea la cover band di Baglioni
meglio la coca nei calzoni
all'uscita dell'aeroporto sul lato mare
dove tutto puo' perdersi o ricominciare..."
(Nuovi Anonimi Popolari)



Nel momento, nel primo bisogno, nel ricordo farcito da spume velenose che giocano a farsi le scarpe, è lì che cambi discorso distratto dal sorriso, o da cosa hai capito e non ci hai capito niente, tranne forse che è stato un incidente, un flashback su una vita precedente, un trip in risalita. E' la partita di coca che mai andrai a comperare, perché le nonne muoiono, le mamme invecchiano e nessun albero lancia i frutti troppo lontano da sé. E all'improvviso ti ha chiesto perché. Perché lei e non un platano sul viale del mare. Perché lei e non una pineta impolverata. Così fissi lo sguardo sulla strada. Dall'oceano qualcuno bussa. Urla dal profondo la notte, dove posa sul mare, dove riesci a toccare. Lì dove arriva lo sguardo e s'incrocia col suo, ecco, tutto il resto scompare.

mercoledì 16 novembre 2011

Odierni ostaggi di pazzi, elementi naturali e vodka da discount


(Fotografia di Francesca Anita Modotti)



La serenità è un pezzo di seta bagnata che s’agita al vento d’autunno. Mi sbatte sugli occhi rubando qualche lacrima,  mi perfora le palpebre socchiuse, mi ghiaccia il bulbo. Invano tento di nascondermi e di evitare le nuvole di fango che bombardano senza pietà questo scranno d’infami sul quale, mio malgrado, mi trovo seduto. Le lacrime piovono anch’esse, e si confondono col male. Tutto corre, e il mio compagno più del tutto, guida come un pazzo verso un posto che non so proprio immaginare. Mi ha convinto parlandomi di un albero magico capace di contenere tutti i sogni e tutte le emozioni. Io scrivo canzoni. E’ quello che sono riuscito a opporre alla sua follia. Gli è bastato darmi spago e due bicchieri di vodka per convincermi a partire. Mentre lui correva e clacsonava, poi, io ho deciso che una bottiglia vale bene un amore. E ho bevuto, neanche in mezz'ora, tutto quello che potevo finire. Al termine di quel tempo niente è cambiato. Se non il mio posto a sedere, che adesso è diventato un altro. Sto infatti fuori dal finestrino, col culo sullo sportello e le mani sul tettuccio. Il fiocco di seta legato all’antenna sul cofano ha cominciato a percuotermi il viso. Il sorriso. Sì perché sorrido. Sorrido della follia di fango e terra che mi scortica la vista, del fiume d’acqua che mi percorre il corpo scaricando dai piedi sul sedile e all’interno degli anfibi. E delle lacrime che non capisco. Che sgorgano senza argine su questo mondo di paglia e immagine. Su questo niente di alberi sinceri, che solo alle parole hanno rinunciato. E non alla mente, non al campo, non alla battaglia ne’ al circo. E piangendo e ridendo mangio la strada, e il mio amico con me, a farmi chiaro nei pensieri. Alla fine c’è un unico punto in questo percorso. E’ quello in cui arrivi quando arrivi, morto. Ogni postilla, ogni segno, ogni attimo di terrore a cui cediamo, è un corollario sciocco e sbagliato, qualcosa che chissà chi s’è inventato. C’è un’origine a questo nulla, che sia bene o che sia male. E c’è un niente da cui provengo, e a cui inesorabilmente tutti ritorniamo. Che sia un inferno comune o una cella singola, davvero l’ignoro. Ma tutto appare e poi scompare. Per cui di cos’è che abbiamo paura? Ecco, io non ho paura di nulla, e lo dirò all’albero magico quando arriveremo. Gli dirò che non temo il fallimento, la solitudine e la galera. Gli dirò che non temo i tuoi occhi nudi sulla pista del sale. Che non temo di poter vivere, di poter ridere e di poter amare. Non temo il tempo che sceglie al mio posto e non temo le scelte che compio. Non temo la follia degli umani, ne’ la logica ferrea degli elementi. Non temo la notte, ne’ il pozzo dal cui buio il futuro grida disperato. Non temo i fucili, ne’ i cani, le scuole di meccanica della marina e questi belli sgombri cervelli che s’illudono d’essere diversi. Non temo questi razzisti, che baciano i cavi della corrente elettrica perché il loro stato non sarebbe come quello colombiano, e i militari qui non controllerebbero il traffico della droga. Perché è chiaro, non serve un esercito qui per gestire l’impresa. Perché qui saremmo diversi in non so bene cosa. Nella storia? Nella gloria? Nell’onore? O nel colore della pelle? Ecco, il razzismo è davvero imponente, sgusciante. E i cervelli sono gomitoli di spago sotto il diluvio di questa notte. Districami un’idea per favore, chiariscimi un concetto. Cos’è che si deve compiere dopo tutto questo tempo in cui io sono qui e aspetto? Perché il tempo è tempo e si compie anche per un solo istante. Ma in questa verità, e lo dirò all’albero appena ci incontreremo, io non ci vedo nulla di consolante. 

lunedì 14 novembre 2011

Cassandra


(Fotografia di Francesca Anita Modotti)



Se fossi un troiano, sarei Cassandra. Chi se ne frega degli eroi esagitati con tutte le loro fisime da Dei convinti che ostentano sapere, volere e tenacia? Sai che noia! Io voglio la resa davanti all’evidenza. Il miracolo senza cui non si può stare. Io voglio un altare di pietra e pelli di bestie scannate. Conciate. E grezza, la lana, voglio intorno al collo. Voglio i velli e i confini del non ritorno. Voglio crescere come l’edera sui muri, voglio improvvisamente comparire. Come la bellezza sa fare, come tutti fingono di capire. Hai davanti quattro carte questa notte, ognuna è un destino. Ci sono quattro tarli diversi, c’è il fuoco del camino e Cassandra si piega in avanti e sorride allungando la mano. Prende dal tavolo un foglio bianco e i colori, e saluta con lo sguardo distratto. S’affaccia sospesa sul pozzo, infinito. Socchiude le labbra, non ha più saliva. E qualcosa le parla, è una voce, sicuro, ma bisognerebbe provare. Qualcuno crede che attinga, mentre lei strilla, perché è la sua stessa vita a farle così tanto male. E nessuno la stima. Nessuno le dà retta. Nessuno le bacia la bocca rossa come la terra. Nessuno la trapassa senza lasciare impressioni, niente l’attraversa abbastanza in fretta. Cassandra ha gli occhi svelti che accolgono il tempo, e la neve e la legna e i turbini grigi sulla sciarpa, prima ancora che arrivi l’inverno.

Cani


(Fotografia di Francesca Anita Modotti)



Ah beh sì, è così, non c’e’ dubbio alcuno ne’ alcuna amara sorte. Ci sono porte, ecco. Alle volte ci sono anche portoni. Generalmente arcigni e chiusi. Anche le oche ci sono, nei cortili, oltre i recinti. E ci sono mura bianche e mura scure, come ci sono anche ciottoli che lastricano le viuzze nei paesi, strette e capaci anche a volte a ripararti un po’ dal vento freddo della montagna. E poi c’è qualche castagna. Non scherzo, anche qualche castagna c’è. Costa due euro al pacchetto, questa merce. E mi ricordo quell’altra festa del vino, quella in cui ero adulto poco più di un bambino, e già allora in mezzo a questo delirio  me ne andavo in giro coi miei compagni sotto il cranio, e chiuso dagli occhi facevo capolino, quando uno di quelli s’affacciava a spiare il mondo a cui era ed è alieno. Già da quel tempo tutte le mie psicosi avevano le carte giuste per tenere la mano. E non c’era da fare nulla se non pregare. Chiudersi dentro un riccio ancora più cattivo e pregare. Adesso voi non lo sapete, ma la preghiera è un sintomo e definisce la malattia. E io invece ne so, perché sono malato. E no, non credo mica a quelle teorie per le quali solo il medico può vedere dentro al secchio e scindere il risotto dalla merda. Anche il malato può, proprio perché genera da sé la sua malattia. Così qualcuno all’epoca chiamò la polizia. Che arrivò tutta defilata decisa a sfondare il cordone. Silvia mi portò via. A due passi dal bancone cominciammo a baciarci furiosamente. Ecco, le cercavo in bocca il cuore mio, ben sapendo che non l’aveva mica mangiato lei. E mi venne, all’epoca in cui ero adulto poco più di un bambino, anche di chiedere dove stesse di casa sua madre. Oggi piuttosto vorrei piovere sui gatti di tutto questo paese pazzo che formalizza una dittatura allegramente, con gioia. Gruppi inneggiano alle elezioni, forse scrivono la storia. Forse è strategia, tattica, opportunismo. Forse sono io davanti a questo momento intriso di specchi sfasciati che tagliano, pungono, rispettano il nemico almeno quanto rispettano la ritirata. E’ tutto così, tutto in festa, tutto in cascata. Filari di piscio scolano lungo i gradini. In slalom taglio i piedi di chi mi capita a tiro. Qualche scusa la dico anche. Ma la mia specialità è entrare e uscire dalle serate come se non avessi un corpo vero e proprio. Come se la materia potesse generarsi da sé a mio comando o per mia alchimia. Scriverò un libro e tramuterò questa potenza in oro. Così svaluterò il metallo giallo e farò un favore a qualche extraterrestre col pianeta malato. Ecco, devo smetterla di parlare con gente cresciuta a cazzi e Urania. Insomma, adesso come adesso sono anche un po’ più stanco di cinque anni fa. E non guardo in faccia nessuno, era questo che volevo riportare della cronaca. A quella festa in cui ero adulto e bambino, finivo sempre a cercare il cuore dentro le bocche di chi non l’aveva neanche assaggiato. Adesso invece navigo addirittura staccando la spina alla vista. Da quel che ne so, potrebbe essere segno di due cose: o ho imparato che la ferocia serve come il salame a un vegano, oppure questa corrente che mi prende e pasticcia ha un profumo familiare, ogni tanto.

domenica 13 novembre 2011

Cassandra (storia familiare di ruoli e salvezza)


(Growin' up, Francesca Anita Modotti)



Cassandra, a sei anni, aveva già il seno pronunciato che gonfiava la maglietta lì dove lei presto avrebbe imparato a poggiare la vergogna. Mi scusi, me la regge qui per un poco? Il tempo di affacciarmi dal balcone e far scivolare giù sul selciato questi occhiali spessi come il ferro sulla schiena del soldato, e tornerò a riprendermela. Sempre che da cieca ritrovi la strada. Di lei in paese non si diceva un gran bene già allora, ma presto le cose sarebbero peggiorate. Perché il padre di Cassandra aveva un compito preciso nella comunità, e non era esattamente il compito che uno si sarebbe scelto. O che si sarebbe aspettato. Il padre di Cassandra puliva il culo ai topi quando quelli, per svariata dieta errata, s’ammalavano di diarree e pulci infette. E se ne faceva fregio anche, del suo ruolo istituzionale, appendendo alla porta i fazzoletti di carta e aspettando che fosse il vento a portarli da dove erano arrivati, secondo lui… E cioè dal niente. Come dal niente erano piovuti quel lavoro e quella figlia, e tutti gli ostacoli a un ritorno abbondante fatto di pacchi di pasta e aceto, di spesa che sfonda la busta di plastica e del nome di lei, Cassandra, che altro non gli aveva lasciato come ruolo se non quello. Così un giorno il padre di Cassandra, mentre rientrava a casa dopo il lavoro, vide la vergogna sulla faccia della figlia. Stava, lei, tesa fuori dal balcone, con la testa in avanti e attaccata alle braccia. La ringhiera pareva essere li li per crollare sotto il macigno di tanta afasia, così l’uomo spalancò la bocca per urlare e alleggerire la scena. Fu in quel momento che vide gli occhiali scivolare. Lo sguardo di sua figlia splendette nel chiaro del meriggio e fu come ritrovarsi coi parenti in cima al bosco, con feste da consumare e parole da scordare e conti da abbonare nell’anno in cui, per differenti sentieri, s’arrampicarono in faggeta e quando giunsero alla radura ci trovarono la loro mamma, che questo era diventata, stesa nell’erba con gli occhi di cera. Cassandra pensò che a partorirla fosse stato un cipresso. E suo padre pensò che la moglie fosse diventata una allodola. Ma poi avevano capito che le radure sono abitate da troppi spettri, e che se un soffio di sale già basta a cambiare il sapore di un pasto, allora davvero mangiare la segale o farsi un maiale, non potevano essere casi così differenti tra loro. Poi gli occhiali precipitarono, come gli eventi, insieme alla vergogna, ai piedi del padre con la bocca spalancata. E Cassandra rise, indicò col dito l’orizzonte, e sull’orizzonte scorse la madre. E tagliò il filo a cui l’uomo appendeva i fazzoletti sporchi e rise forte ancora, come a teatro, quando non si capisce una battuta ma il biglietto vale bene la rappresentazione di avercela fatta, di essere come tutti, divertito e arguto. Cassandra indicò l’orizzonte e il padre capì che era tempo di andare. Che i rotoli di carne tenuti a stecca per le volte in cui avremmo potuto averne fame adesso gli sarebbero serviti tutti. Abbracciò la scena con le palpebre, come dentro a una cornice. Si grattò il mento, sbadigliò perplesso e si convinse. 

sabato 12 novembre 2011

Il torto, per fortuna (avere ragione e’ uno dei fatti piu’ sopravvalutati ed inutili nella vita degli esseri umani)


(Foto di Eri Haka)



Non si possono seminare i campi a cadaveri come fosse una bella cosa, perché quelli non sono mica spighe di grano e non ci fai il pane, ma solo sapone e carne come di cane, dolciastra, pepata o affumicata su vivaci roghi di diossina. E neanche si possono bestemmiare i santi degli altri, perché la soddisfazione che arriva da uno scarico di fogna, a respirarlo, manca dell’aroma tipico di quei primi caffè bevuti appresso a sigarette  accese male. Alla cornuta, o con il corno a destra e il corno a sinistra, o sfogliando la margherita. Mi ama non mi ama mi ama non mi ama. E intanto la notte arriva. Arriva il tempo come un turbine di diamante, e mi sembra di essere un altro. Uno che del grano guarda solo i papaveri. E che al pane preferisce la gotta. Voglio annegare nel sangue, disse un tizio, e io…? E io ci credei. E invece poi venne fuori che quello chiedeva un salvagente. Ecco, tu non mi puoi amare, perché io sono un semplice, e certe cose non le so capire. Io dico: butto pari, vediamo che esce. Ma non è una strategia, è una teoria. E dimmi, la teoria del tossico, quando mai ha portato a beni che non fossero da infilare su per il naso? Quando mai ha permesso di entrare a gratis allo stadio, magari per assistere all’incontro di box tra un peso massimo e una gallina? Ecco, che fortuna, l'ho trovato: questo è l’uovo di Colombo! Oggi è semplicemente il giorno in cui ho avuto torto.

venerdì 11 novembre 2011

Breve discorso tumorale intorno a fari e destino


(Fotografia di Francesca Anita Modotti)


"Quando illumina la notte senza una scusa
tutto quello che raggiunge brucia"
("10 anni piu' vecchio", Centro Sociale Trakkignani)




Ecco, alla fine il tempo ha parlato. Ha fatto il suo primo accenno. Adesso non so che pensare. Perché questo, comincio a crederlo seriamente, deve essere un qualche cazzo di tumore. Dite che faccio il tragico? Ah beh non lo so. Certo che voi non state nella mia testa, e quindi mica lo sapete cosa vedo da qua dietro … E se anche a voi apparissero fantasmi in sogno? E se anche voi foste in comunicazione con qualche altro malato che nel cervello ha una roba ma nessuno sa bene cos’è? Perché, e credetemi, so quel che dico, nessuno ha una precisa idea di che ci sia nel cervello e ancora di più nessuno ha una neppure vaga idea di chi ci abiti. Beh, se così fosse? Se apparissero pure a voi mali e rami ben pasciuti di fronde? Se ci fosse l’interrogativo e solo quello rimanesse? Perché magari l’altro malato ha solo paura, e mica è malato davvero. E allora io, indomabile io, beh allora capirei. Sarebbe normale. Dato che questo immenso silenzioso può sembrare addirittura un male oscuro, certo che farebbe paura. Ma se così non fosse? Il dubbio viene, sapete? E se così non fosse allora saremmo come le piante di liquirizia. Le cui radici in reticolo s’allungano e le collegano l’una all’altra. E quel grosso male sarebbe nostra madre, e tutto spiegherebbe. I sospiri, il vuoto allo stomaco, i sogni e le intemperie. Cosa? Chiedete se io abbia più paura del tumore o di altro? Che domande … io so qual è il piano. Il tumore o chi per lui me l’ha detto. Cosa cambia averne o no paura? Ho delle immagini, una sorta di scaletta. Non so come si arriva da un anno all’altro, ma so dove si arriva. Potrei sedermi tranquillo ad aspettare, se fossi uomo di fede. E invece no, invece il destino ha bisogno di carne e sangue per compiersi, altrimenti resta come il fantoccio vuoto che cade a terra. Come il burattino senza fili. Come la giacca infangata che qualcuno mi ha levato ieri sera, mentre ero sbronzo, e ha lasciato a terra. Sgonfia la guardo e sorrido. Fuori c’è una fitta nebbia. L’affetto con gli occhi e ti trovo. Sei come il faro sul molo. Non c’è nulla che possa impedirti di raggiungermi.

mercoledì 9 novembre 2011

Lavorare lavorare lavorare


(Foto dal web)


“preferisco il rumore del mare”
(Dino Campana)




“preferisco il rumore del mare”
(Dino Campana)



Qualsiasi Regno qualsiasi sogno qualsiasi foglio strappato andrà bene. Saranno stelle filanti a carnevale, con trombe di cartapesta e maschere da cuochi golosi. Trascineremo per le vie del paese la stoffa di mille misogini arcani, e saremo poco più che furfanti, pensatori stufi, illuministi infami. Al secolo si chiamavano passeggiatrici, ma non sembrò possibile seguirle lungo gli argini dei fiumi quando belle senza massimo splendore se ne andarono a lavare i panni sporchi in Arno. Manzoni si rivelò una trovata davvero originale, un katerpillar schiacciasassi, e tutti i buoni in galere e manicomi. La lettura dei Promessi Sposi, imposta nelle scuole, fu un atto di terrorismo, un genocidio, la pulizia etnica che padre tramanda a figlio. Cancella ogni residuo che dal naso ti coli e baciami la mano, dice il vecchio insano. E noi gioiosi a farne incetta. Perché Manzoni è vicino ai tempi nostri, dicono. E' rappresentativo d'ogni vagito di questa infanzia muta, uccisa, sterilizzata e disorientata. Parlo col prodotto della semina e le bacche maturano in fretta sotto il sole cocente. Gialle di spighe, montagne di grano colmano i bagagli e conducono alla sconcertata rinascita, alla rivolta, all'allerta. E io con Essa me le invento le parole, le gioco, le trasformo e vi sputo negli occhi. Rispetto? Sì, se uccidere lo è, se rifiutare la strada condivisa per imporre un inchino lo è… il vostro è rispetto. Civiltà…? Quale abominio nasconde questa costruzione amara? Inginocchiatevi e pregate, luridi vermi spaventati, di fronte alle galere. Segnatevi la fronte con la croce e dimenticate il mistero buffo di un relitto reietto e macilento che è bene non guardare, che è bene circondare, che è bene limitare, che è bene recintare. Mormoratene il nome come superstiziosi sciocchi, toccandovi di soppiatto, e indicatene i luoghi ammonendo la prole. Dipingete un quadro per riempire la cornice d’argento e tutto il resto chiamatelo follia, Fate, fate pure come foste di gomma, di plastica, o riemersi da inferni non biodegradabili. Come foste voi, almeno anche voi, altro che una malattia.